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Chiamami così - Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo

09 Maggio 2024

Vera Gheno, Chiamami così, Trento, Il Margine, 2022/

Il breve e scorrevole libro della socio-linguista Vera Gheno è dedicato alle parole che noi usiamo per parlare o scrivere del mondo che ci circonda, un uso che non è mai neutro ma che nasconde delle convinzioni, nel peggiore dei casi dei pregiudizi. Parliamo e scriviamo senza avere una piena consapevolezza che, ogni giorno, disegniamo il mondo e i rapporti che lo regolano secondo delle idee precise che abbiamo imparato durante gli anni della nostra formazione e che, un po’, abbiamo pure elaborato noi.

Il cavallo di battaglia della Gheno è sempre quello, ovvero l’uso delle parole declinate al maschile, l’uso del cosiddetto sovra esteso maschile o maschile non marcato, anche quando ci si riferisce ad ambedue i sessi. “Cari colleghi”, o “Un appello rivolti ai cittadini” sono frasi tipiche, si pensa sempre al maschile anche quando più della metà del mondo è composto da donne.
In questi casi una soluzione facile, seguendo le regole della grammatica italiana, ci sarebbe. “Care colleghe e cari colleghi", “Un appello rivolto alle cittadine e ai cittadini”: possiamo riscrivere in questo modo senza per questo appesantire la frase, almeno non più di tanto.
Un discorso simile riguarda anche i femminili professionali, ovvero quando si designano quelle professioni che in passato erano di competenza quasi esclusivamente maschile. Anche qui ci sono dei modi per arrivare a una parità linguistica di genere. L’avvocato e l’avvocata, il pugile, la pugile, il direttore la direttrice, già perché, in questo caso, la direttora è inutile dato che già esiste una specifica parola al femminile e che non suona come quelle parole che finiscono con il suffisso in -esse e che, volte, sembrano un grumo vocale appiccicato a fine parola (le direttoresse).

Il discorso potrebbe proseguire con altri esempi, tratti da altre diversità specifiche. Quando però parliamo di parole inclusive, di linguaggio inclusivo ovvero il modo di riferirsi agli altri grazie al quale non esiste discriminazione, si pone una questione di fondo a cui non è facile dare una risposta.
Sono le parole che cambiano la realtà o è la realtà che cambia e che, così facendo, cambia anche le parole?
Sono i parlanti che ricreano continuamente la lingua e lo fanno perché cambiano le condizioni oggettive. Gli stessi linguisti oggigiorno sono restii a parlare di grammatiche prescrittive ma di grammatiche descrittive, ovvero descrivono come i parlanti usano le parole e le regole ad esse sottese.
Siamo proprio sicuri che usando per sempre la dicitura “persone con disabilità” questo cambierà anche la condizioni delle persone disabili? Siamo sicuri che l’assessore che usa un linguaggio inclusivo o un giornalista che scriva in pari modo, poi siano realmente inclusivi nelle loro azioni?

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